Corriere di Como, 13 novembre 2018
L’11 novembre di dieci anni fa si spegneva la voce di mons. Alessandro Maggiolini. Io, che ne fui anche il “portavoce” – e in questo compito rimasi perlopiù… disoccupato, visto che il vescovo di Como la voce sapeva portarsela da solo nell’arena dei media – vorrei ricordarlo nello spazio di un breve articolo, alla luce anche della commemorazione ufficiale avvenuta domenica pomeriggio in Duomo. Credo che dieci anni siano stati un tempo sufficiente a dimenticare, ma sono ancora troppo pochi per ricordare veramente Maggiolini. L’archivio del Centro Rusca si sta attrezzando per offrire la disponibilità del suo archivio privato – soprattutto dei circa 2000 articoli apparsi su quotidiani e riviste in 50 anni di feconda attività pubblicistica – e della sua biblioteca composta da oltre 5 mila volumi. Un tesoro che continua a mantenere viva la voce di Maggiolini e che permetterà agli studiosi di penetrare nella trama della ricca tela da lui tessuta nell’ambito teologico e in quello mediatico. Del resto, il ruolo di un archivio è proprio quello di far parlare delle carte che altrimenti sarebbero morte, così da permettere semmai la rimodulazione postuma di un giudizio, che la cronaca non riesce mai compiutamente a dare.
Oltre ai documenti e ai ricordi di chi l’ha conosciuto, anche i libri di mons. Maggiolini – con le dediche, le sottolineature, le note a margine e magari i fogli di appunti allegati – ci aiutano a comprendere la sua personalità. Tra i suoi libri, che sono in fase di catalogazione al Centro Rusca, ne ho trovati due con altrettante dediche significative dei loro autori. Uno è l’allora card. Joseph Ratzinger – poi papa Benedetto XVI – che esprime la sua «comunione fraterna» al vescovo di Como, regalandogli il volume “Guardare al Crocifisso”: siamo forse a fine 1992, in occasione della presentazione del Catechismo della Chiesa Cattolica (di cui Maggiolini fu redattore). L’altro autore, in epoca più recente – siamo nel dicembre 2006 – è il popolare giornalista Rai e scrittore Bruno Vespa, che dedica il suo libro “L’Italia spezzata” «a Don Sandro, vescovo gagliardo e coraggioso».
Mi si perdoni l’accostamento tra i due autori e libri, così diversi tra di loro, eppure anch’esso aiuta a comprendere la poliedricità di Maggiolini, capace di grande profondità nei temi della dottrina teologica, ma pienamente attrezzato a parlare anche di cose del mondo, della politica e del costume, a fil di penna e con colpi di fioretto, rendendo sminuzzabile quella stessa sacra teologia finemente elaborata, nel contatto con la vita quotidiana della gente.
E allora diventa quasi profetico quell’aggettivo, tipico del gergo romanesco e così lontano dal linguaggio curiale, con cui Bruno Vespa definisce il vescovo Maggiolini: «gagliardo» dice più del semplice «coraggioso» e segnala una qualità purtroppo rara nella società e nella stessa Chiesa. Un «vescovo gagliardo» è quello che i pusillanimi al massimo tratteggiano come «divisivo», perché non sanno nemmeno lontanamente comprendere la forza evangelica del portare il fuoco e la spada – sono parole di Gesù – laddove regnerebbe solo una comoda confusione.
Credo che a spiegare la gagliardia di don Sandro aiutino le lucide parole di Lorenzo Morandotti, pubblicate su queste pagine dieci anni fa all’indomani dei funerali di mons. Maggiolini, e risuonate anche domenica pomeriggio in Duomo. «Per essere chiari: mille, diecimila volte meglio un teologo controcorrente e inattuale perché autentico, capace di alzare la voce in nome di idee cui tenere fede fino al martirio, che una schiera di don Abbondio o di voltagabbana consacrati alla mediocrità, pronti a cambiare opinioni come banderuole pur di saltare sul carro del vincitore o della casta di turno». Nulla da aggiungere, e, ahimè, dopo dieci anni è cresciuta solo la nostalgia.