Nel mio nome…

VENTISEIESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno B

«Nel mio nome». Gesù ripete tre volte questa espressione, e la considera come vero criterio discriminante tra chi è con lui e chi è contro di lui. Importa di meno, a questo livello, che si faccia parte esplicitamente di una comunità targata, quanto l’essere, il parlare e l’agire nel nome di Gesù.

Dobbiamo comprendere bene questa espressione. Per noi, oggi, il nome equivale a qualcosa di superficiale, una parola dietro cui può esserci anche il nulla… Se ne dicono tante di parole e si può fare una cosa «nel nome» di chicchessia anche per puro interesse di facciata. Per un ebreo, invece, agire «nel nome» di qualcuno significava condividere tutto di quella persona, diventare un tutt’uno con lui, quasi rinunciare alla propria identità, o meglio far consistere la propria identità nell’appartenere al qualcuno nel nome del quale si agiva. Capite bene, allora, che, quando Gesù fa riferimento a chi agisce nel suo nome intende segnalare un’appartenenza vera, ben più provata e solida di quella che si può esprimere facendo parte di un gruppo: si può far parte del gruppo di Gesù anche solo per apparenza, mentre essere e agire nel nome di Gesù dice un’appartenenza più profonda, ed è questa quella che interessa veramente a Gesù. Il problema non è tanto il quanto: un miracolo o un bicchiere d’acqua è lo stesso, ciò che conta è che sia nel nome di Gesù.

Ecco perché non ha alcun senso quella particolare disposizione dell’animo umano che va sotto il nome di invidia e di cui parlano le tre letture odierne.

L’invidia è uno dei più potenti corrosivi del cuore dell’uomo, non solo perché rende perennemente insoddisfatti, ma soprattutto perché impedisce di vivere secondo lo sguardo di Gesù. L’invidioso è uno che non è capace di essere e agire nel nome di Gesù, ma pretende che il nome di Gesù sia ormai diventato la sua personale bandiera e vede in chiunque altro agisca nel nome di Gesù una limitazione della propria potenza e, quindi, un possibile nemico. È stato detto che «il primo sintomo del proprio fallimento è l’invidia per il successo dell’altro» e questo è vero soprattutto dentro la comunità cristiana, ove parole quali «successo» e «fallimento» sono sempre da riferirsi a Cristo e non all’esito immediato della propria azione.

Oggi non è più di moda parlare di vizi e virtù. Eppure quanto sarebbe necessario ritornare a parlarne e a farne il fulcro dell’educazione. Ebbene, l’invidia è un vizio che ne genera almeno un altro, la superbia, e che apre la porta all’inimicizia e all’odio. È un vizio antico, perché aveva clienti al tempo di Mosè (vedi la prima lettura) e poteva intaccare anche un apostolo come Giovanni (vedi il vangelo). Anche la prima comunità cristiana era vulnerabile da questo punto di vista, e ne fa fede la pagina di Giacomo (vedi la seconda lettura), che non è tanto un’invettiva contro i ricchi fine a se stessa, ma tesa a distogliere i cristiani dall’invidia verso chi è ricco: succedeva, infatti, che i primi cristiani, in gran parte disagiati in quanto a risorse economiche, vivessero nell’invidia dei ricchi pagani; Giacomo, allora, mostra a quali sciagure vada incontro chi abbia fatto della ricchezza il motivo della propria vita, e in tal modo, oltre a togliere ogni plausibile fondamento all’invidia del ricco, dice chiaramente che l’invidia delle ricchezze altrui può essere un peccato anche più grave dell’accumulo smodato di ricchezze.

Dovremmo fare un serio esame di coscienza a livello personale e comunitario circa l’invidia. Quanto tempo buttiamo via a desiderare di essere come gli altri o di avere come gli altri, e dimentichiamo così di mettere a frutto quello che siamo e quanto abbiamo. Volesse il cielo che ciascuno nella comunità ponesse il meglio di sé, gioendo per il meglio degli altri, senza perdersi in inutili vampate di invidia. Nella vita comunitaria sono dannose sia l’eccessiva stima dell’altro che la scarsa autostima di sé. La soluzione è quella suggerita da Gesù: essere se stessi e agire nel suo nome, cioè accettare di essere umilmente, con le proprie qualità, degli strumenti nelle mani del Signore.

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