Corriere di Como, 19 giugno 2018
La vicenda di Penka potrebbe far sorridere, ma è un ulteriore stimolo alla riflessione su un tema che ha suscitato molte polemiche negli ultimi giorni. Penka è una mucca bulgara che – ovviamente a sua insaputa – ha varcato il confine ed è finita in Serbia: doganieri e poliziotti non l’hanno fermata alla barriera di Oltomantsi, e così il povero bovino si è trovato fuori dall’Europa. Il proprietario Ivan Haralampyev ha pensato bene di andare a riprenderla oltreconfine e riportarla a casa, ma, una volta giunto in dogana con la sua mucca ritrovata, ha scoperto che Penka era sprovvista del documento europeo necessario per il trasferimento del bestiame da un Paese non-Ue a un Paese europeo. Il bovino ha pure rischiato di essere condannato alla macellazione, ma alla fine l’Agenzia per la sicurezza alimentare bulgara ha dichiarato l’animale sano e l’ha riconsegnato al suo legittimo proprietario, in Europa.
Naturalmente la storia di una mucca non è minimamente paragonabile con le vicende di migliaia di uomini, donne e bambini, che si gettano nel Mediterraneo alla ricerca di una migliore condizione di vita, pagando il viaggio a mercanti senza scrupoli. Il vero problema sta sul versante della partenza e non dell’arrivo. E su questo tutti dovrebbero essere d’accordo, come sul fatto che ogni singola vita umana è “non sacrificabile” a nessun teorema ideologico o politico.
Ma la storiella della mucca bulgara fa emergere la realtà di un’Europa che è drammaticamente assente sul terreno di una condivisa solidarietà, e che diventa improvvisamente presente quando si tratta di difendere le “vecchie” frontiere nazionali nella trincea delle regole burocratiche. L’Europa è assente quando i barconi di migranti arrivano nei porti italiani (magari pensando che… “italiani, brava gente!”). L’Europa ricompare magicamente alla frontiera di Ventimiglia o a quella del Brennero o sulle Alpi piemontesi o nei porti francesi e spagnoli (che già da luglio 2017 sono chiusi alle navi delle Ong) o nei veti posti dai Paesi del Gruppo di Visegrád, per respingere quegli stessi uomini, donne e bambini, come clandestini che devono starsene nel Paese dove hanno attraccato.
Si comprende, allora, perché la scelta azzardata del ministro Salvini di chiudere i porti alla nave Aquarius abbia incontrato tanto consenso popolare. È una mossa per risvegliare la coscienza dei Paesi europei, che si è comodamente assopita sul dogma inaccettabile che “tanto ci pensa l’Italia!”.
Una cinquantina d’anni fa nelle nostre famiglie s’usava far trovare il piatto girato al figlio che non aveva mangiato quel che vi aveva trovato il giorno prima. Nessuno ha mai pensato di deferire la povera madre alla Corte europea per aver affamato i figli! Il piatto girato non aveva il valore di una cura negata, ma era solo un espediente che, a partire dal brontolio dello stomaco, avrebbe dovuto mettere in movimento anche il cervello.
Un ricatto? Una prova di forza? No, solo uno strumento pedagogico, da usare naturalmente con la necessaria fermezza unita alla dovuta moderazione. Vedremo. Già il prossimo Consiglio europeo del 28 e 29 giugno potrebbe riunire un’Europa meno distratta.