Corriere di Como, 29 maggio 2018
Il Giro d’Italia che aveva trovato la sua massima esaltazione lungo lo sterrato del Colle delle Finestre è finito poi malamente nelle buche di Roma. Magra figura rimediata da tutti con l’ultima tappa neutralizzata dalla giuria dopo 35 chilometri su richiesta dei corridori, i quali, poi, a cronometro spento, le buche e i sampietrini li hanno abbondantemente assaggiati a quasi 50 all’ora. Non è stato molto bello vedere la maglia rosa Chris Froome arrivare in trionfo con 17 minuti di ritardo, dopo che nella tappa di Bardonecchia il britannico di minuti ne aveva affibbiati a tutti in una eroica cavalcata solitaria su e giù per le montagne.
Da noi ogni fatto rischia di trasformarsi in polemica sterile e non mi sembra il caso che, in questo momento di aspro scontro politico e istituzionale, se ne aggiunga un’altra, di cui francamente possiamo fare a meno. Le buche di Roma non sono una novità, la stanchezza e la sicurezza dei ciclisti sono sacrosante, quasi quanto l’esigenza che lo sport sia spettacolo da dare in pasto al pubblico dei tifosi o anche dei semplici appassionati o di chi apprezza il Giro come strumento per conoscere e gustare le bellezze d’Italia.
Tanto di cappello, allora, a questi motorini umani che in tre settimane hanno macinato oltre 44.000 metri di dislivello, percorrendo più di 3500 chilometri ad una media di quasi 40 all’ora. Il vecchio Ciao che avevo da giovane si sarebbe fermato prima, forse già sulle rampe dell’Etna! Mi domando sempre come è possibile ottenere simili prestazioni, pensando anche al fatto che il secondo – che non verrà nemmeno ricordato nell’albo d’oro della competizione – è arrivato con poche centinaia di metri di distacco dal primo (appena 46 secondi su un totale di 89 ore).
Ecco perché guardo con simpatia la fatica di Giuseppe Fonzi, che per compiere il Giro d’Italia da Gerusalemme a Roma di ore ne ha impiegate quasi sei in più rispetto a Froome, arrivando 149.esimo, cioè ultimo. Tra il 1946 e il 1951 all’ultimo classificato venne assegnata una maglia nera, e il nome è poi rimasto ad indicare «quel corridore che è acclamato da tutti anche se è ultimo in classifica generale». Sono parole con cui si è definito l’atleta abruzzese, che con un pizzico di retorica ha detto di essere «il corridore del popolo». In effetti con lui – che è come se avesse percorso piano piano una tappa in più del vincitore – il ciclismo ipertecnologico torna con i piedi per terra pur restando in bicicletta. Un ciclismo più umano, che magari regala anche il permesso di dare una sbirciata ai panorami senza dipendere troppo dal cronometro.
E umano, troppo umano, è anche quell’andare in bambola – così si dice nel gergo dei cronisti sportivi – di alcuni campioni, che di colpo si sentono vuoti, e cominciano a barcollare, e le gambe non girano più, tanto da desiderare solo di scendere dalla bicicletta e salire sull’ammiraglia. Alla fine a vincere è chi non va mai in bambola, chi mostra una superiorità che non si lascia scalfire da nessuna crisi e che continua a frullare pedalate su pedalate a testa bassa. E che, diciamocelo, nella sua perfezione è anche un po’ disumano…