TRENTATREESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno A
In tempi di crisi finanziaria mondiale questa parabola di Gesù merita una spiegazione supplementare. Non è affatto un invito all’azzardo o alla ricerca di un profitto scriteriato, anche se il poveretto che aveva ricevuto un solo talento si sente dire dal padrone che avrebbe dovuto affidare il suo denaro ai banchieri per poter ritirare il versato con gli interessi maturati. La parabola, come sempre, utilizza un’immagine per trasmettere un insegnamento. L’immagine è spesso paradossale e può rappresentare anche un comportamento eticamente sbagliato (pensiamo a quell’amministratore che, licenziato, si conquista la simpatia delle persone, dimezzando i loro debiti verso il padrone). Qui è chiaro quale sia l’insegnamento di Gesù: a ciascuno è stata affidata una responsabilità diversa e nel farlo si è tenuto conto delle capacità di ciascuno (questo spiega il numero dei talenti, diverso da soggetto a soggetto) e il compito della vita consiste nel mettere a frutto questa responsabilità, di cui verrà chiesto conto da Dio al termine della vita.
La prima cosa da fare, allora, è scoprire quali sono i propri talenti, cioè qual è il compito da svolgere nella vita in base alle qualità e alle capacità. Espressioni sbagliate per eccesso sono: «Tutto è alla mia portata, posso raggiungere ogni risultato!» e «Non valgo nulla, la mia vita è senza senso». Non c’è spazio, cioè, né per deliri di onnipotenza né per false umiltà. Il vero umile non è colui che se ne sta nell’ombra, sotterrando nella buca il talento ricevuto, ma colui che mette a disposizione con semplicità le proprie qualità, senza farle diventare una vetrina di sé, ma nemmeno senza tenerle nel cassetto. Uno dei compiti più importanti degli educatori è aiutare ciascun ragazzo, adolescente e giovane a tirar fuori dal cassetto le proprie qualità, intanto a riconoscerle e poi a saperle utilizzare per il bene comune. Educare significa proprio questo: «condurre fuori». Non è così automatico conoscere le proprie qualità. Serve un lavoro educativo. Lo stiamo compiendo?
Accanto all’aiuto dato a ciascuno perché scopra il proprio talento, ci deve essere anche l’aiuto offerto affinché si eviti l’errore dell’invidia. Sì, perché uno degli ostacoli più grandi alla scoperta del proprio talento è il tempo perso ad invidiare i talenti degli altri. Scriveva san Francesco di Sales: «La natura ha messo una legge per le api, che ciascuna faccia il miele nel suo alveare e con i fiori che trova intorno a sé… Oh, quante strade per il cielo! Siano benedetti coloro che camminano lungo di esse; ma poiché la mia è questa, camminerò lungo di essa in pace, serenità, semplicità e umiltà… Non perdiamo tempo a considerare la bellezza degli altri, ma limitiamoci a salutare quelli che passano e diciamo loro semplicemente che Dio ci conceda di rivederci alla meta». Far fruttificare i talenti, dunque, è anche questione di amore verso il posto in cui si è stati messi, e di fedeltà al compito affidatoci e alla vocazione in cui concretamente abbiamo scelto di vivere l’amore.
Da questo punto di vista è molto bella la prima lettura nel suo presentarci la donna forte, la donna saggia, il cui valore – dice l’autore del libro dei Proverbi – è ben superiore alle perle. Per la Bibbia la donna forte è la donna che lavora umilmente e fedelmente nel silenzio della sua casa, ed insieme si apre alla considerazione delle miserie del mondo e cerca di accoglierle, di sanarle con le sue mani e con il timore del Signore. Certo, una donna siamo abituati a riconoscerla per il frutto del suo grembo, per il dono della maternità che ella solo può assicurare all’umanità. Ma qui l’autore biblico ci invita a esserle riconoscente «per il frutto delle sue mani» perché «in lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto». Proprio quel profitto di cui parla la parabola evangelica, e che è il frutto dell’aver trafficato il proprio talento.
Anche san Paolo nella seconda lettura, anticipando un tema che sarà al centro della nostra riflessione nelle prossime domeniche, ci invita alla sobrietà: «Non dormiamo come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri». Non è un attivismo frenetico quello a cui ci invita Paolo, ma un’operosità semplice, che sa riconoscere al Signore il suo ruolo, ma sa anche interpretare la nostra vita come fedeltà ai doni che da Lui abbiamo ricevuto.