Mi è capitato di parlare di celibato dei preti in questi giorni. L’argomento è entrato in più di un dialogo con persone diverse per sesso e per stato di vita. Mi ha colpito cogliere la necessità che il celibato salvaguardi l’amore del prete, anzi lo esalti in massimo grado, così che egli possa servire amando. Di celibi “castrati” – come capponi impettiti che non devono generare – non abbiamo bisogno, né nel mondo né tantomeno nella Chiesa. Una persona proprio ieri mi domandava se un prete sposato potrebbe essere disponibile come lo è un prete celibe? “Forse no”, ho risposto. Ma intanto mi veniva in mente la lamentela di qualche cristiano che non trova mai un prete (celibe) disponibile: “Quando lo cerchi, non c’è mai, ha sempre qualcosa da fare…”.
Ma è proprio vero che il celibato è garanzia di disponibilità? Purtroppo no. Certo è che un prete che tenesse famiglia dovrebbe amare sua moglie e i suoi figli più degli altri, e la comunità cristiana sarebbe in grado di accettare questa inevitabile gerarchia? Tralascio altre eventualità più frivole ma non meno reali che si creerebbero nel caso la canonica fosse abitata da una donna che è la “preferita” del prete in quanto è sua moglie… Qualche esperto in sacra teologia – magari proprio uno di quei capponi impettiti in collettone bianco – direbbe che queste sono banali questioni secondarie, che la vera motivazione del celibato sta altrove e troverebbe qualche bel parolone per esprimerla. Sarà. A me piace continuare a pensare che il celibato sia ad esclusivo servizio dell’amore del prete, sia cioè il suo modo di amare la gente, ciascuno come se fosse l’unico. Il celibato, dunque, come fattore liberante della vita.
Ecco che, allora, a me – come del resto al confratello con cui ho parlato stamattina – sorge un dubbio: rendere il prete uno “zingaro” che salta da una parrocchia all’altra, trasformarlo in un amministratore di parrocchie, o tirarlo via dalla parrocchia per farne un burocrate d’ufficio, un gerarca territoriale, un esperto di uno dei tanti “ismi” in cui si è immiserita la teologia, non equivale forse a minarne innanzitutto il celibato come risorsa per l’amore? Tempo fa mi aveva colpito un articolo che riportava l’allarme di un vescovo olandese circa la crisi delle parrocchie. Peccato che si voleva venderlo come giustificativo di scelte pastorali azzardate o dimostratesi sbagliate, quasi a voler leggere la crisi del numero dei preti (parroci) come crisi delle parrocchie. No, a me la parrocchia appare in salute, in buona salute. Sicuramente sta meglio delle curie di ogni ordine e grado e delle stesse famiglie. Se il problema è che ci sono meno preti, non si dica che la parrocchia è in crisi, perché non è vero. E se si smantellano le parrocchie – magari le più piccole, quelle che sono più vive – perché mancano i preti, si stia attenti a non confondere l’effetto con la causa. Talvolta ho il sospetto che si voglia far credere che l’unità pastorale di migliaia di abitanti formata con l’aggregazione più o meno forzata di più parrocchie sia il “meglio” e non soltanto il “purtroppo”. Ebbene, non è affatto il meglio, perché l’ideale resta quello di una comunità di mille abitanti con il suo prete (celibe) che è in grado di conoscere e di amare la sua gente, e non di fare l’amministratore delegato di una quasi-azienda…
Chi l’ha detto, poi, che non esistono altre ipotesi di soluzione? Certo, forse saranno anche più rivoluzionarie, forse andranno preparate da lontano, forse richiederanno una visione meno clericale. Ma è necessario che se ne parli, tra preti innanzitutto. Invece, ho il sospetto che si butti via un sacco di tempo in questioni territoriali, strutturali, burocratiche, organizzative e si stampino un mucchio di pagine inutili che nessuno leggerà… Ecco perché ho pensato di aggiungerne una anch’io, ma mi piacerebbe che si parlasse di noi e tra noi di queste cose, invece di perderci in estenuanti incontri per preparare incontri e stilare calendari, che poi magari ci toccherà riempire di parole… invece che di persone.
Anche se non sono prete permettimi di dirti : bravo don!
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Di quello che dici in questo articolo voglio esprimere la mia sensazione in merito all’importanza della parrocchia. Penso di essere fortunato perchè vivo in una piccola frazione in cui, grazie al don e ad altre validissime persone, la parrocchia è molto attiva e molto importante per i bambini, gli adolescenti ed anche gli adulti. Rappresenta, insomma, un vitale punto di riferimento. Grandissimo, preciso e/o ripeto, è il contributo delle persone che collaborano;
tutto ruota, comunque, intorno alla figura del don. Tempo fa, a seguito di una ‘odiosa’ decisione della ‘gerarcha ecclesiastica provinciale’, si era diffusa la voce secondo la quale, il nostro don sarebbe stato destinato sicuramente ad altro incarico e la parrocchia accorpata ad altre. Ecco che (lo presa un po’ alla lontana) era palpabile, in molti di noi parrocchiani, la sensazione di ‘malessere’, di cosa non giusta, all’ipotesi di dover ‘perdere’ il nostro don e ‘chiudere’ la parrocchia; anche in chi, come il sottoscritto, vi collabora solo un pochino. Al di là della veridicità della ‘voce’, è giusto che queste decisioni possano essere prese solo dai ‘vertici’ ? I parrocchiani hanno voce in capitolo ?
Molte volte mi rendo davvero conto dell’importanza di quello che mi circonda e di quello che ho, se non quando penso di doverlo perdere. Spero, non in questo caso.
l’argomento mi trova impreparato sul piano teologico. Tuttavia, come è già successo nella storia della Chiesa….se si chiedesse a padri di famiglie cattoliche cristiane di abbracciare il Diaconato……e poi l’Ordine Sacerdotale…….penso che tanti accetterebbero di buon grado. E’ cosa buona…e bella……..quando Dio lo riterrà opportuno, manderà le sue rivelazioni attraverso lo Spirito Santo….Ci sono esempi in Como di Preti Ortodossi sposati con famiglia e figli… io li ho visti…..ho provato una grande gioia nel cuore…..aspettiamo che il Padre si manifesti per dare forza alla sia Chiesa