Gesù è risorto. La domanda che non ha più risposta è questa: «dove si trova Gesù?». Non ha senso farsi questa domanda, semplicemente perché Gesù non ha più un «dove», un indirizzo preciso e univoco. I due che avevano camminato insieme a lui sulla strada verso Emmaus – senza sapere che era lui… – lo portano a Gerusalemme dentro il loro cuore ardente, dopo che Egli si è fatto riconoscere nel gesto di spezzare il pane. Era apparso e poi sparito? Si era trattato di una visione? No, essi erano certi di averlo incontrato lungo la via, erano sicuri che avesse parlato con loro ed avesse condiviso il pasto. Non fanno in tempo a raccontare la loro stupefacente esperienza, che, ecco, il fatto si ripete a Gerusalemme: «Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”». Il racconto di Luca toglie ogni dubbio circa la natura di questo incontro reale: è una esperienza di fede. Il che non vuol dire affatto che è qualcosa senza fondamento razionale e fuori dalla storia. No, credere è un modo di conoscere, è un modo di vedere, che tra l’altro utilizziamo spesso. La maggior parte delle decisioni e delle azioni delle nostre giornate sono fondate saldamente su atti di fiducia e non su ragionamenti logici. Per fortuna è così, perché fidarsi e credere è un comportamento usuale che salva la nostra vita da una procedura logica estenuante che la condurrebbe alla follia.
Il racconto evangelico ci mostra il gruppo dei discepoli in preda a due situazioni emotive tra loro molto diverse. Prima sono «sconvolti e pieni di paura», poi nella gioia e «pieni di stupore». Eppure, pur passando da un estremo all’altro, dalla paura alla gioia, si dice anche che «non credevano ancora». È molto bella questa narrazione che ci fa così simili ai discepoli: anche noi, nei momenti più importanti della vita, siamo avvolti da emozioni contrastanti, in cui pare che l’unica assente sia proprio quella ragione che dovrebbe invece sovrintendere a tutto. Evidentemente non è così. Ma proviamo ad entrare nel vivo del racconto. Perché i discepoli, quando «Gesù in persona stette in mezzo a loro» sono «sconvolti e pieni di paura»? Perché «credevano di vedere un fantasma». Carissimi, se Gesù è un fantasma, è giusto essere «sconvolti e pieni di paura». Un fantasma riempie la vita di paura, perché è per definizione senza alcuna consistenza. «Gesù in persona» non può essere un fantasma, non può essere la proiezione mentale di un passato e nemmeno la consolazione allucinata che il messaggio di un morto almeno continua ad essere vivo. Non è questa la risurrezione di Gesù. Non è la sopravvivenza di un insegnamento, talmente grande da far credere che Gesù è vivo. Il fantasma è un prodotto della mente umana, e simili prodotti devono farci paura, non possono non sconvolgere la vita. Se Gesù è un fantasma, è come tutti gli altri fantasmi… fa paura!
Gesù si fa guardare, toccare e mangia una porzione di pesce arrostito. Non è un fantasma. Ecco che i cuori dei discepoli sono «pieni di stupore» e la paura si trasforma in gioia. Se Gesù è vivo, è giusto essere nella gioia e «pieni di stupore», perché siamo certi che non si tratta di una allucinazione, ma di una vera e propria esperienza di vita. I discepoli sono contenti perché non stanno sognando, eppure sono «pieni di stupore» perché sono trascinati dentro un’esperienza che non riescono a misurare. «Non credevano ancora». Ed ecco ciò che manca e che «Gesù in persona» s’incarica di colmare: «Allora aprì loro la mente per comprendere». Lasciatemi aggiungere che è quello che manca anche a noi: la nostra mente, il nostro cuore, la nostra intelligenza – ovvero la capacità di intus legere, di leggere dentro la realtà della vita – è chiusa ed il Risorto è, per definizione, colui che apre la mente e che vi fa entrare la linfa di vita. Finché noi sentiamo lontano l’avvenimento di cui in questi giorni ci parla continuamente la Chiesa – e lo fa ogni anno nel tempo della Pasqua – e non avvertiamo il desiderio che Egli apra il nostro cuore e spalanchi la nostra mente, la Pasqua continuerà ad essere una semplice data sul calendario. Bisogna dedicare del tempo, tempo dell’orologio, tempo talmente prezioso che – chissà perché – dedichiamo a tutto tranne che a Lui. Non è un rimprovero. È un rammarico.