Corriere di Como, 7 luglio 2020
Si sta parlando molto di lavoro da casa, di lavoro a distanza. E come al solito spunta un inglesismo, «smart working». Quella dell’uso appropriato del termine sarebbe una questione lunga e di lana caprina, con il rischio di risultare indigesta e inutile. Basta un’occhiata al dizionario. Detto di una persona, l’aggettivo inglese «smart» la qualifica come sveglia, acuta, intelligente, furba, e forse questi significati valgono anche per il suo «working», il suo modo di lavorare.
Ma qui da noi in Italia la questione non vi sarebbe nemmeno stata senza l’irrompere del coronavirus. La maggior parte di noi ha sentito pronunciare «smart working» insieme ad un altro inglesismo, «lockdown». Nessuno era veramente preparato al lavoro da casa, ma tutti vi si sono visti costretti, come emergenza nel distanziamento sociale e nel confinamento dentro le case. E così, improvvisamente, è diventato intelligente lavorare sul tavolo della cucina di casa invece che sulla scrivania in ufficio.
Con indubbi vantaggi (almeno in un primo momento): niente traffico per andare al lavoro, orario elastico, pranzo a domicilio. Ma non sono state tutte rose e fiori: pensiamo a chi ha dovuto condividere il tavolo e la connessione internet magari con il coniuge pure lui costretto a lavorare da casa e con i figli impegnati nelle tele-lezioni della scuola a distanza e, insieme, ha dovuto gestire anche i pasti familiari e le pulizie domestiche. Insomma, sono sicuro che qualcuno sarà stata contento di tornare in ufficio.
Ma intanto si fa strada l’idea di regolamentare il lavoro da casa, non più solo come emergenza, ma come prassi abituale. Ma è davvero “intelligente” fare questa scelta, quasi che sia stato “stupido” invece il lavorare in ufficio come nella lunga epoca pre-Covid? Non è mia intenzione rispondere a questa domanda, soprattutto se posta in questa formulazione manichea, perché non ho alcuna competenza in materia. Ma alcune considerazioni si possono fare.
Qual è il criterio che fa decidere in quale direzione andare? Ebbene, non può essere la produttività, nuda e cruda, perché il lavoro riguarda le persone, che non sono macchine. La produttività è certamente importante, soprattutto in un mondo che pare guidato dall’economia e dalla finanza, ma non può essere il criterio unico, né quello decisivo.
Nonostante la rivoluzione tecnologica e digitale abbia allentato questa consapevolezza, il lavoro – ogni lavoro – si configura come esperienza di socialità e collaborazione. Abbiamo tutti sperimentato che un isolamento prolungato non è salutare. La comunicazione virtuale sta sostituendo l’incontro personale in una robotizzazione dei rapporti. Davvero vogliamo aumentare questa tendenza disumanizzante con il lavoro a distanza, in cui anche i colleghi sono al pari dei clienti e sono negate salutari pause da passare fuori ufficio, ma anche fuori casa?
Ne va anche di un sano dualismo dei luoghi e delle esperienze, tra casa e ufficio. Semplici gesti come mettere le scarpe e uscire di casa per recarsi in ufficio, o mettere finalmente le ciabatte per riposare un poco sul divano di casa, sono cesure benefiche che aiutano ad equilibrare il ritmo della vita e a sottrarla alle grinfie di una monotonia casalinga. Usare la casa anche come ufficio, alla lunga snatura il luogo più sacro che abbiamo.
Non vi è nessuna certezza che il virus non influenzerà ancora profondamente il nostro modo di vivere sino a quando vi sarà il vaccino e sarà sperimentato e diffuso nel mondo “globalmente” contagiato. Finchè il lavoro a casa viene fatto per emergenza è indispensabile per la sopravvivenza; se fosse programmato come prassi abituale nella “digitalizzazione di terza generazione” ne potrebbe soffrire l’umanesimo!!! La “domus” era già rispettata, per la permanenza dei “lari”, in epoca pagana; nel cristianesimo è divenuta il luogo sacro della famiglia. Il tavolo di lavoro (banco del falegname, telaio della tessitrice, scrivania/p.c. del giornalista…) è un posto pregnante ed è stato definito da don Primo Mazzolari un “altare” di Dio. L’andare al lavoro a piedi, in bici, in bus, in treno, in monopattino è un momento di incontri, di saluti, di visione urbana. Unificare i tre momenti nella stretta casa, per l’efficiente produttività dello smart working, potrebbe banalizzare la nostra vita e generare anche turbamenti psichici. Se l’uomo perdesse la lucidità, la serenità, la vitalità della comunicazione viso a viso e si ritrovasse intristito o peggio depresso, i “soloni” dello smart working avrebbero miseramente fallito. Taiana