Corriere di Como, 9 giugno 2020
La parola «esperienza» è tra quelle che usiamo di più. Il suo significato, però, è ambiguo. Spesso utilizziamo questa parola per indicare ciò che ci accade, la serie delle situazioni in cui siamo catapultati dagli eventi. Invece, l’esperienza non è ciò che ci accade ma ciò che noi decidiamo di fare con ciò che ci accade. C’è un surplus di umanità in questa operazione che è sempre in fermento e che aumenta di giorno in giorno il bagaglio, appunto, della nostra esperienza. Se smettiamo di decidere, in realtà decidiamo di non decidere, ovvero decidiamo che ciò che ci accade abbia il sopravvento sulla nostra libertà. E in questo caso siamo noi che ci lasciamo mettere nell’angolo dai fatti e che imbocchiamo le vie dell’ansia e della rassegnazione. L’uomo che rinuncia a trasformare in esperienza ciò che gli accade, non solo s’impoverisce ma rallenta il cammino dell’intera umanità.
Indubbiamente negli ultimi tre mesi abbiamo tutti fatto l’esperienza del coronavirus, certo con gradazioni diverse, e i mezzi di comunicazione ci hanno permesso di venire a conoscere anche gli aspetti più drammatici. Ci siamo sentiti sull’orlo di un precipizio. Provo stupore misto a rabbia quando in questi giorni sento e leggo le esternazioni di alcuni soloni i quali affermano che non è successo nulla e che siamo stati vittime di una esagerazione mediatica. Invece ci è accaduto qualcosa di inaspettato e di tragicamente nuovo.
E dovremmo tutti modificare due parametri che credevamo sicuri. Il primo è quello della nostra presunzione a poter controllare tutto: ebbene, abbiamo verificato che non è così, c’è qualcosa – e qualcosa di importante e decisivo – che ci sfugge. Il secondo parametro che si è come volatilizzato è quello della predisposizione a considerarci inossidabili: no, siamo fragili, e il nostro grado di vulnerabilità è più elevato di quello stimato, se basta un virus invisibile e sconosciuto a farci cambiare la nostra mappa mentale.
E c’è una terza cosa che dovrebbe far parte del nostro bagaglio di esperienza da coronavirus: ciò che è accaduto non è frutto del caso, ma è la conseguenza di scelte compiute da noi, dagli uomini, cioè dall’unica specie vivente che ha la capacità di comprendere i meccanismi che regolano la natura e che, quindi, ne ha la responsabilità.
Sappiamo l’esperienza che abbiamo fatto, messi di fronte a ciò che ci è accaduto. Ora davanti a noi sta la grande possibilità di fare la nuova esperienza del «dopo». Faccio riferimento a un fatto che tutti abbiamo notato, anche qui nella nostra città: il confinamento nelle case ha avuto effetti positivi nella lotta contro il virus, ma anche in quella contro l’inquinamento. L’aria si è ripulita, la natura si è risvegliata e in parecchi luoghi del mondo si è ripresa i suoi spazi. È accaduto, ci è accaduto. Quale esperienza vogliamo farne? Qualcuno ha già detto che l’aria era pulita, a prezzo di una economia che si è fermata, e ha paventato un’alternativa secca tra morire di Covid-19 e morire di fame.
Sapremo trovare una via di mezzo tra il sogno della decrescita felice e l’incubo del progresso non sostenibile? Ecco, questa è la sfida del dopo. E non è rivolta al singolo uomo e nemmeno può pensare di affrontarla da sola una singola nazione. È la sfida di una nuova globalizzazione, meno egoista e più intelligente.