Corriere di Como, 21 aprile 2020
La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha ammesso che l’Europa deve chiedere scusa all’Italia. Qualche giorno prima, parlando la nostra lingua, aveva addirittura detto: «In questo momento siamo tutti italiani». Ora, quel momento era già in grave ritardo rispetto alla drammaticità del contagio, eppure le decisioni dell’Europa continuano ad essere in agenda. È sempre difficile mettere d’accordo 27 Stati membri, soprattutto perché quella che ci ostiniamo a chiamare Unione Europea è ancora un’idea immaginata anche solo sulla carta, mentre nella realtà continua ad essere un tentativo vano di conciliare gli interessi nazionali che sono ancora prevalenti.
Insomma, quando c’è da decidere, in Europa sono tutti sovranisti, cioè sostenitori di fatto di quella nuova ideologia che a parole poi quasi tutti condannano. È come se il coronavirus sia riuscito a potenziare una malattia che già c’era, ma era come sotto controllo e si poteva misurare con tutti quei termometri economici e finanziari che ogni giorno producono la solita lista di numeri. Ora che il conteggio che fa paura non è lo spread o l’indice delle Borse ma è il computo giornaliero dei malati e dei morti, certe decisioni sempre rimandate diventano urgenti e invece continuano ad essere rimandate. Perché ciascuno s’ostina a fare i conti a casa sua, illudendosi che da solo possa salvarsi meglio. Il problema vero – quello di sempre e a cui il Covid-19 ha solo tolto la mascherina – è che in Europa dovremmo riuscire a dire che «siamo tutti europei». Le uniche scuse che a noi italiani farebbero piacere sarebbero decisioni autenticamente europee.
Che «siamo tutti italiani», invece, dovremmo imparare a dirlo – e ad esserlo – noi italiani, indipendentemente dalla regione in cui abitiamo e dalla percentuale di Pil che rappresentiamo con il nostro lavoro o la nostra intraprendenza. Perché il problema della incapacità di prendere decisioni e del superamento dei particolarismi non è solo della politica europea ma anche di quella italiana. Investiti due mesi fa da una violenta contagiosità del coronavirus – e in una delle regioni, la Lombardia, più attrezzate in quanto a strutture sanitarie – nonostante un mese prima il Governo avesse annunciato che si era pronti ad affrontare l’emergenza, in un primo tempo è prevalsa la solidarietà, magari non scevra da errori. Era il tempo dei tricolori esposti alle finestre e dell’inno nazionale cantato dai balconi. Poi hanno preso il sopravvento le divisioni politiche, la dialettica tra Governo e Regioni, il cortocircuito tra consulenze scientifiche di decine di comitati non sempre in accordo tra di loro e il livello politico-decisionale, il conflitto tra la salute dei cittadini e l’economia del Paese. In questi ultimi giorni, poi, abbiamo dovuto assistere all’accavallarsi di progetti o anche solo di proclami e minacce che non fanno il bene dell’Italia.
Che cosa si aspettano i cittadini che fanno la loro parte, continuando a restare in casa? Due cose. Gli scienziati, a partire dall’attuale conoscenza che hanno del virus, traccino le loro ipotesi, perché di questo comunque si tratta e non di certezze. I politici ne prendano atto e decidano con prudenza e coraggio che cosa è possibile fare. Adesso però, perché il futuro si può solo progettare. E dal passato bisogna cominciare ad uscire.