Colpo di testa 158 / Le case tornino a essere piccole chiese

Corriere di Como, 7 aprile 2020

Spesso comprendiamo appieno l’importanza di qualcosa quando essa viene a mancarci, perché l’abitudine ad averla a portata di mano ce ne fa svanire il significato. Capita anche con le persone e non solo con le cose: quando mancano, improvvisamente ci mancano e scopriamo quale tesoro rappresentavano per la nostra vita quando erano con noi. Ci pensavo in questi giorni di reclusione forzata nelle nostre case in riferimento ad un luogo che comunque caratterizza il territorio in cui viviamo: le chiese. Aperte o chiuse che siano, sono vuote e da oltre quaranta giorni non vi si celebrano più le messe se non dal prete da solo.

Che cosa manca con le chiese vuote? Non manca certo la preghiera, perché essa può essere fatta in ogni luogo. Anzi, nel Vangelo si dice proprio di chiudersi nella propria camera e pregare nel segreto. Ciò che manca è il radunarsi del popolo, il convenire della gente dalle case di ciascuno alla casa di tutti. È un gesto sociale quello che manca (come ne mancano altri, del resto, in questi giorni). È un punto importante, questo, per capire la differenza tra il pregare e il radunarsi per la messa, e non fare confusione. Del resto, prima che arrivasse il coronavirus mi pare di ricordare che tanti cristiani rinunciassero già con estrema facilità alla messa domenicale, tanto – questa era la motivazione che spesso veniva data – «posso pregare Dio anche da solo a casa mia».

Ancora una volta ci viene in aiuto la storia. Le case sono state le prime chiese per almeno due secoli: ci si radunava lì, trasformandole in piccoli luoghi ove celebrare il culto e non solo pregare privatamente. Il bisogno di radunarsi era fondamentale per i cristiani, tanto che l’imperatore Diocleziano, ordinando nel 303 l’ultima grande persecuzione contro di essi, intimò di radere al suolo le chiese per impedire che i cristiani avessero la possibilità di radunarsi. Ma nel giro di dieci anni tutto cambiò. E in un clima di libertà religiosa, i cristiani per edificare le loro nuove chiese non si ispirarono al tempio pagano ma alla basilica romana: il modello non fu un luogo sacro per pregare, ma un luogo profano per radunarsi. Da allora le chiese non hanno smesso di essere, pur nelle molteplici variazioni architettoniche, luoghi dell’incarnazione e della socializzazione.

Che cosa dice questa storia ai nostri giorni? Offre il fondamento di una mancanza che non può non essere avvertita come una ferita al cuore del cristianesimo, soprattutto nei giorni della Pasqua. Una ferita che viene accettata solo in nome di una grande responsabilità sociale, anche perché non avrebbe senso un radunarsi che mettesse a rischio la vita soprattutto delle persone più fragili e che limitasse proprio la fraternità stessa del radunarsi e la ricchezza dei riti.

Sarebbe un controsenso celebrare nelle nostre chiese una Pasqua nel segno della paura e del distanziamento sociale. Meglio usufruire dei canali televisivi e digitali come di efficaci surrogati che possano in qualche modo compensare una mancanza, riconosciuta però come autentica. E accettare la sfida che le case tornino ad essere piccole chiese.

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