Corriere di Como, 24 marzo 2020
Che fine ha fatto la religione in questi giorni dominati dalla pandemia? Ho trovato questa domanda su un giornale. Si suggeriva che forse le speranze dell’umanità, più che all’aiuto divino, sono oggi affidate ai progressi della ricerca scientifica. Non vorrei scandalizzare nessuno dicendo che anche Dio confida nella scienza, visto che anche l’intelligenza umana è opera sua. Mi ha molto colpito la notizia di quel prete emiliano, che, prima di essere ordinato sacerdote, era pneumologo: nei giorni scorsi ha deciso di lasciare provvisoriamente la parrocchia in cui esercitava il suo ministero pastorale per tornare in ospedale ad indossare il camice bianco e dare il suo contributo come medico. Ma sono sicuro che non ha smesso di essere prete, anzi nell’attuale emergenza può esserlo molto di più dei suoi confratelli che sono costretti a restare in casa, perché può essere a contatto diretto con i malati. Nella sua persona scienza e fede, invece di essere viste quasi in contrasto fra di loro, assommano i propri specifici benefici, differenti e collaboranti, in una lotta comune contro il virus.
L’uomo ha bisogno delle domande, e forse il segno più evidente della profonda crisi che stiamo vivendo è dato proprio dall’assopirsi delle domande. L’epidemia, con il contagio della paura che si porta appresso, le sta facendo tornare vive e consapevoli. E sono prima di tutto domande urgenti che riguardano il «come». Come siamo potuti cadere così tragicamente nella rete malefica del virus? Come si spiegano tante morti sul nostro territorio? Come è possibile curare questa malattia? Come sarà possibile attuare una protezione permanente dal Covid-19? Sono domande decisive e sono pienamente umane. Tocca alla scienza formulare delle risposte e la nostra speranza è che siano trovate il più presto possibile e che siano rassicuranti e capaci di sconfiggere l’epidemia. Per raggiungere questo obiettivo siamo tutti disposti a compiere il sacrificio delle nostre libertà individuali e ad evitare la trama delle relazioni, che è così importante per la qualità della vita.
Ma ci sono anche domande che riguardano il «perché». A dire il vero, la nostra società ci ha portato ad anestetizzarle e a cacciarle sotto lo zerbino di casa. Ecco, l’epidemia è oggi l’occasione di un turbamento e di una insicurezza che generano quelle domande profonde ed ineliminabili che cominciano con «perché». E la fede genera proprio queste domande. La scienza cerca risposte al «come», la fede suscita domande sul «perché». Qualche credente illuminato crede di poter azzardare anche una risposta. Perché ci sta capitando tutto questo? Perché Dio ci sta punendo per i nostri peccati, perché il coronavirus è un castigo di Dio! Attenti, questa è una delle possibili risposte sbagliate ad una domanda giusta. Ed è una risposta sbagliata perché chiude irrimediabilmente la domanda, mentre la fede autentica la tiene aperta e la trasforma semmai in un cammino, in un dialogo, in una Presenza misteriosa trovata accanto a chi soffre e donata a chi ha paura.
Quindi, dov’è finita la religione – e intendo quella cristiana – in queste settimane del coronavirus? È là dov’era prima. Anche prima non si misurava solo nelle chiese. Oggi, nelle case e negli ospedali, si è mischiata alla solitudine di molti e al miracolo quotidiano della cura, per tenere aperta una domanda di senso. Al vivere e al morire.