Corriere di Como, 23 gennaio 2018
C’è solitudine e solitudine. La parola è polisemantica, dicono gli esperti della lingua. Quell’adagio, erroneamente attribuito ai classici o al Medioevo, che risuona “O beata solitudo, o sola beatitudo”, evidentemente ne ha una visione positiva, tanto da considerare la solitudine la vera ed unica felicità dell’uomo. Ma come tutti gli aforismi – questo si ritrova in una poesia di un sacerdote olandese del XVI secolo e da allora campeggia spesso all’ingresso di monasteri o eremitaggi – ha una sua verità del tutto relativa. Intanto, indica sicuramente una solitudine fatta oggetto di una libera scelta di vita, il che è in grado di mitigare gli oggettivi svantaggi della condizione solitaria dell’esistenza, che per natura è segnata da bisogni connessi alla alterità. Non siamo fatti per stare da soli, e la piacevolezza del vivere – così come il suo contrario, purtroppo – è strettamente legata alla presenza degli altri, almeno di un altro. La solitudine, nella sua accezione positiva, quindi, dipende unicamente dalla coniugazione virtuosa di alcuni contenuti: si direbbe che la beatitudine della solitudine sta tutta e solo in ciò che la riempie. Non è la solitudine in sé a rendere felice la vita, ma è lo scopo che essa serve e rende possibile. C’è una solitudine per pregare, per studiare, per riflettere, per contemplare, per dormire… Faccio sempre molta fatica, ad esempio, a credere possibile che uno possa studiare con la musica nell’auricolare, ma c’è che ci riesce. Io preferisco una solitudine coniugata nel silenzio.
Tutto questo cappello introduttivo, per dire che la nostra società post-moderna, piena di cose e di comunicazione superveloce, è riuscita a creare una solitudine, che non è questa che ho descritto, ma è malattia. Abbiamo tolto l’uomo dal gregge per valorizzarlo, e in parte questa promozione dei soggetti era urgente e necessaria. Ma poi, entro una società in cui c’è da garantire a tutti una qualità di vita vicina alla perfezione, questi soggetti si sono brutalmente ridotti a individui. E questa parola si può anche ostentare al plurale, quasi in un moto di rivendicazione di diritti personali, ma poi drammaticamente si vive al singolare. È la solitudine sociale, che fa paura.
Tanto che nei giorni scorsi la premier britannica Theresa May – sì, proprio lei, la fautrice della Brexit, ovvero della scelta di solitudine politica ed economica del Regno Unito – ha deciso di creare una nuova figura nel suo esecutivo: il ministro per la solitudine. Si è convinta che si tratti di una vera e propria “epidemia sociale”, di “una triste realtà della vita moderna per troppe persone” e ha affidato l’incarico di “Minister for Loneliness” a Tracey Crouch, già sottosegretario allo Sport e alla Società civile, con il compito di sviluppare misure contro ogni forma di solitudine. Con quali mezzi lo Stato contrasterà gli effetti della solitudine? Speriamo non siano gli stessi con cui ha contribuito a crearla! Nei decenni passati, infatti, proprio in nome della libertà individuale poi sfociata in solitudine, si è smantellato quel tessuto sociale e solidaristico costituto principalmente dalla rete familiare. Ove la famiglia ha resistito, c’è un argine naturale alla solitudine. Tornerà lo Stato a riconoscerne il valore e a difenderla?