Mai contento questo Padreterno! Se rifiuti l’invito, ti punisce. Se lo accetti, sta lì a guardare come sei vestito e ti butta fuori. Chissà quante volte, ascoltando questa parabola bizzarra, abbiamo fatto questo ragionamento di cosiddetto “buon senso”. Ebbene, facciamo un passo indietro, teniamoci tra i denti le nostre banali considerazioni, e tentiamo di ascoltare. Gesù sta parlando del regno dei cieli, mica dell’arbitraggio dell’ultima partita di calcio – di quello discutono già in Parlamento e non è il caso di aggiungere altre parole – e ci sta dicendo che il regno dei cieli – cioè, la nostra dimora – è simile a un Dio che sposa l’uomo, e non un uomo soltanto o due o tre o qualche migliaio, ma tutti gli uomini. Gesù ci annuncia un fatto mai udito prima e che nessuna religione del mondo, né prima né dopo, ha mai annunciato. L’immagine del banchetto delle nozze del figlio del re racchiude la realtà dell’incarnazione di Dio e la realtà di quella immensa comunità che è la Chiesa. Ebbene, non c’è ombra di dubbio che siamo stati invitati.
Carissimi, il Vangelo è un invito, è una chiamata. Nella vita siamo abituati agli inviti, ci piace essere invitati, ma non possiamo nasconderci che vi sono almeno due tipi di risposta ad un invito. C’è l’invito che si accoglie subito con gioia, ci si prepara, si va con entusiasmo, ci si trova a proprio agio perché magari si è al centro dell’attenzione, ci viene rivolta la parola, viene richiesto il nostro parere. E c’è l’invito che si accetta malvolentieri, quasi si dovesse farlo per forza, per timbrare un cartellino di presenza, magari in vista dell’ottenimento di qualche favore («Io intanto ci vado, poi potrò sempre dire: Vedi? Io c’ero…»). Solitamente, quando è la gioia a muoverci nel rispondere ad un invito, siamo raggianti, luminosi, ci mischiamo alle persone, cerchiamo di conoscerle, non abbiamo timore a mostrare il volto, siamo addirittura simpatici. Quando invece rispondiamo ad un invito per un calcolo o per un obbligo, si vede da lontano che ci andiamo con il muso lungo, attorniati dai soliti due o tre che magari condividono la nostra strategia «funebre», con la testa bassa, e riusciamo anche ad essere antipatici. Di fronte all’invito al matrimonio tra Dio e l’uomo – l’incarnazione – che continua in quella casa che è la Chiesa aperta a tutti, come rispondiamo? Davanti al vangelo di Gesù, incarnato dentro una storia, dentro una comunità ben precisa, la nostra, come ci comportiamo? Questa è la domanda che la parabola del banchetto di nozze rivolge a noi oggi. Anche perché noi stessi siamo chiamati ad essere a nostra volta portatori di un invito che abbiamo ricevuto e accolto: l’invito del vangelo lo rivolgiamo con gioia o con noia? Si ha l’impressione che le nostre comunità siano un po’ refrattarie agli inviti, e spesso la risposta sembra quasi forzata, un peso che bisogna portare e… sopportare, un piacere che si fa a chi invita in vista di ottenerne qualche favore (e magari fosse, almeno, il paradiso!). Senza contare che la descrizione che nella parabola Gesù offre della reazione degli invitati è universalmente valida: «Quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari». Diremmo noi oggi: ciascuno ha il suo orticello da innaffiare, il suo scopo da ottenere, il proprio affare da curare, il proprio gruppetto da coltivare… E invece no, Dio in Gesù continua a invitarci a questo banchetto grande che è la Chiesa. Bisogna lasciare – ma per davvero, non solo per timbrare il cartellino – il proprio campo, bisogna rinunciare al proprio affare per aderire al grande affare di Dio, con la convinzione di chi si affida a Lui, anche se magari non capisce tutto, e con il volto di chi sa infondere entusiasmo e gioia. Ci vuole, cioè, il vestito nuziale, per stare da invitati nella sala del banchetto. Nessuna paura. Siamo chiamati dalle strade, il vestito ci viene offerto insieme all’invito. Basta dire di sì, e non avere l’odiosa presunzione di poter prendere l’invito della Chiesa alla leggera, come un qualsiasi altro invito segnato sull’agenda. Basta non credere che siano sufficienti i nostri quattro cenci, l’abito dell’abitudine quotidiana, il vestito tessuto con le nostre certezze e cucito con le nostre pretese, per stare con Gesù nella Chiesa. Bisogna accogliere l’invito, farlo diventare nostro, e accettare noi di appartenere alla Chiesa, in Gesù.
Ha ragione Don Agostino! In effetti le strade sono tante ed è giusto che siano tante così ciascuno può trovare la propria strada in questa confusione che è la Chiesa. Alla fine si tratta solo di scegliere una strada una volta per tutte. Magari una volta scelta la benedetta strada, potrebbe essere che la confusione si trasformi in certezza o in sicurezza. Siamo o non siamo figli di Dio e allora si può sapere dove Lui ci vuole? Preghi per me. Grazie.