Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario. Incarnazione… «a due a due»

Ho provato a pensare quali modi avesse Dio per realizzare il suo sogno. Perché, Dio ha un sogno? Sì, desidera un’umanità riconciliata e felice. Il più infallibile di tutti i metodi che avrebbe potuto usare è sicuramente quello di mostrarsi nella sua divinità perfetta e piena: chi potrebbe voltargli le spalle? chi non rimarrebbe abbagliato dalla sua luce e conquistato dal suo amore? Metodo infallibile, ma in un certo senso disumano, perché eliminerebbe dalla scena proprio l’uomo, con la sua libertà, di cui noi andiamo così fieri (ma ne va fiero anche Dio, perché è Lui ad averci creati così, liberi!).

È un esercizio inutile domandarsi come Dio avrebbe potuto realizzare il suo sogno. Perché Egli lo sta realizzando. Ed ha già scelto il suo metodo, che è quello di accettare sino in fondo la nostra carne come veicolo della salvezza. Dio, volendo compiere il suo viaggio nell’umanità, ha scelto di viaggiare non su un comodo e veloce jet che sorvola la terra dall’alto, ma… a dorso di mulo, percorrendo le strade a stretto contatto con la nostra umanità. Insomma, quando Dio ama, rischia, perché si mischia alla nostra carne, si affida alle nostre vite. Manda avanti noi, mettendoci in bocca ciò che dobbiamo annunciare e testimoniare. E noi – e Lui con noi – saremo accolti, ma anche rifiutati. È il mistero grande dell’incarnazione: Dio è talmente vicino che può essere accolto proprio perché vicino, ma anche rifiutato, e per lo stesso motivo, perché è troppo vicino.

La pagina evangelica di oggi ci racconta dell’invio in avanscoperta di settantadue discepoli, a due a due, in una condizione di estrema povertà e di suprema libertà. Dentro questo numero simbolico – che sta ad indicare le nazioni della terra, cioè tutto il mondo – siamo nascosti anche noi, e non solo i missionari che vanno in Africa o in Asia. Noi siamo il veicolo di Dio. Noi siamo lo strumento di realizzazione del suo sogno. A due a due ci manda, perché non dobbiamo solo annunciare ma anche testimoniare. Gli altri devono sentire e poter vedere. E siccome devono sentire una sola cosa – «Dio si è fatto vicino», questo è l’annuncio sconvolgente – bisogna essere in due a mostrarlo, perché un Dio «che si è fatto vicino» si può vedere solo nell’amore, nell’accoglienza reciproca, nel perdono, nella tenacia dell’andare d’accordo. Bisogna essere almeno in due per mostrare al mondo il sogno di Dio! La compagnia umana è il metodo scelto da Dio per realizzarlo. Un metodo rischioso – dicevo – perché la trama dei rapporti umani ha in sé la forza di rendere bello e desiderabile il volto stesso di Dio, ma contiene pure la possibilità di renderlo opaco. San Paolo direbbe che Dio ha messo il suo sogno come un tesoro dentro vasi di creta. Il tesoro c’è e si intravede… dalle crepe del coccio. Qualcuno guarderà il tesoro e dirà: «Che bello questo Dio! Come mi si è reso vicino, accettando addirittura di fuoriuscire dalle mie crepe!». Qualcun altro guarderà, invece, proprio le crepe del vaso e magari dirà: «Ma che Dio è mai questo che, prezioso com’è, accetta di stare dentro un vaso crepato?». Esattamente quello che accadde alla missione dei settantadue discepoli mandati da Gesù. Esattamente quello che accade ad ogni missione cristiana. È il mistero dell’incarnazione, dell’ac-coglienza e del rifiuto del Regno di Dio che si è fatto vicino.

Solo un’ultima riflessione su quel «a due a due». Un’esigenza di testimonianza cristiana, un bisogno di compagnia umana. Mi piace pensare che quel «a due a due» racchiuda il mistero grande del matrimonio, come volto umano – sacramento – del-l’amore di Dio. L’amore coniugale è davvero il luogo ideale per mostrare che Dio si è fatto vicino. Si è fatto vicino in un amore fedele e tenace tra un uomo e una donna. Si è fatto vicino nella dedizione ai bambini che vengono a coronare questo amore e un po’ anche a sconvolgerlo e a renderlo ancora più umano e più fragile e, quindi, maggiormente abitato dalla misericordia di Dio. Ma quel «a due a due» ci riguarda tutti, proprio tutti, perché, da principio, «non è bene che l’uomo sia solo». Che non ci accada come a quell’uomo che, dopo la morte, arrivò in cielo. Dio lo accolse sorridendo, ma stranamente guardava oltre le sue spalle. Il sorriso di Dio si velò di una strana malinconia e poi chiese all’uomo: «Ma… sei arrivato solo?».

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