VENTOTTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C
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L’ingratitudine di nove su dieci lebbrosi guariti ha una motivazione burocratica: c’era una complicata procedura di attestazione della loro guarigione, e non si poteva ancora farla online, per cui devono andare al tempio di Gerusalemme a presentarsi ai sacerdoti, e non hanno tempo da perdere.
Ciò che salva quell’unico che torna a ringraziare è che non si sogna nemmeno di andare a Gerusalemme, perché è un «eretico» samaritano, uno «straniero». Non dobbiamo dimenticare che il problema nasce da un fattore quasi nascosto, ed è che i dieci guarirono non lì davanti a Gesù, all’istante, ma mentre andavano. Bisogna considerare che per un lebbroso guarire era un resuscitare, avere nuovamente il diritto di vivere, poter stringere relazioni, uscire dall’isolamento.
Una cosa che, se dovessimo usare una parola che riesce a dire entrambe le realtà, dovremmo cercarla nel vocabolario latino: è la salus, che immediatamente richiama la salute, ma che indica anche la salvezza. Gesù è medico in quanto salvatore, dona la salute come segno della salvezza, come a dire che l’essere in buona salute non coincide con la salvezza. Il seguire questa pista di riflessione avrebbe bisogno di tempo. Possiamo solo indicare che questo è il vero senso di questo episodio: non è solo un invito ad esercitare la gratitudine, ma è ciò che nel profondo differenzia i nove che non tornano a ringraziare e l’unico che invece lo fa.
È la consapevolezza di ciò che era successo in quello strano incontro senza contatto con Gesù. Nove avevano constatato di essere guariti e volevano scrivere il più presto possibile la parola “fine” sulla loro tragica esperienza di malati. Guariti di una guarigione del corpo, ma anche di una guarigione sociale. Il samaritano, invece, ha la sensazione di essere stato salvato, non solo guarito, e torna indietro ad incontrare Gesù che gli ha cambiato la vita.
A me sembra di aver capito che cosa non è e che cosa è la Messa domenicale. Non è una procedura religiosa che certifica che siamo cristiani. È il nostro tornare indietro a ringraziare di essere un popolo di salvati.
Proprio così; ed è una ” prova” di fedeltà: quella di Gesù che ci ha salvato una volta per sempre ma è sempre presente nelle nostre storie ; quella nostra nel nostro consenso al progetto divino. La Messa come segno di reciproca appartenenza, come segno di adesione allo stesso sogno.
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Tornare indietro a ringraziare. La Messa domenicale, nel catechismo della mia adolescenza, era definita un “precetto”; si doveva andare a Messa per certificarci cristiani. Ho capito ora, da don Agostino, che la Messa è un segno di adesione al progetto divino; “è il nostro tornare indietro a ringraziare di essere un popolo di salvati.”